giovedì 7 marzo 2019

In treno (ritorno)







Letizia Ricci

Ho una valigia e due borse in più. L'Italia me la porto via piano piano, a pezzi.
In una borsa ci sono i grissini, gli specialissimi grissini piemontesi, nell'altra ricchi premi e cotillons che si portano dietro il profumo di piazze appena affollate, commesse tanto solerti quanto giovani, edicolanti dissestati dalla pantagruelica mole di riviste e fumetti. I fumetti li riporto sempre, hanno un linguaggio speciale che ai figli non deve sfuggire. La valigia è per i libri, frutto della puntuale full immersion da Feltrinelli. Sono diventata un convoglio eccezionale, senza accorgermene. Sarà il caso di dire che la cultura pesa. E i grissini sono fragili, stanno appesi in posizione esterna sulla spalla sinistra, dal che si evince che dovendo spintonare è opportuno che avvenga a destra.

Avrei voluto portare anche il bicerin e il menu della piola, che da solo è valso il frugale pasto della sera prima. All'ingresso della piola c'è il bar, qualche avventore e l'intera famiglia che si indaffara tra le salette ricavate da un ex garage, una ex terrazza, una ex cantina. Confortante scenario di vetrate con profilato di alluminio anodizzato, contro ogni moderna eleganza, con vista sul cortile del caseggiato. Sul tavolo c'è un foglio, una lista con i piatti della casa e accanto ad ogni voce un quadratino per segnare la quantità di "pezzi" da ordinare. Ci sono troppe cose che non entrano in una valigia.

Le stazioni di transito hanno una peculiarità: ci si infila il vento esattamente nella direzione del treno, misto all'odore di freni e di ferro. Mi viene un attimo di panico immaginando uno spaventevole futuro in cui sul bordo del binario ci sia un Mac Donald che distribuisce panini ai viaggiatori appesi ai finestrini. Immagino con terrore l'odore di patatine rifritte al posto delle polveri metalliche: si preghi perché non accada mai.
Le staffilate di vento arrivano nette nel collo ad acuire i solchi del bagaglio sulle spalle.
Devo riuscire a lanciare il bagaglio oltre la portiera, si sentono già i fischi, lancio tutto fuorché i grissini.

Open space, stavolta. Ci sono poche persone, vado in avanscoperta per individuare il posto e ancora una volta ne scelgo un altro, quello al centro, il salottino in cui c'è un ampio tavolo che divide i sedili che si fronteggiano.
Prendo accordi con un signore che è già lì e fortunatamente si è già collocato controvento. Richiude il computer, ripiega i lembi del tavolo, per farmi posto. Si rende conto che tocca fare un paio di viaggi verso l'ingresso per recuperare il bagaglio.
Un uomo alto, gioviale, occhiali e barba rossicci, compìto anche dopo essersi caricato la valigia con i libri, sulla quale ha appena detto "acc...". "La lasci giù, quella, per favore", "Diamine, ma che c'è dentro?", "Libri ..."; questa risposta lo rassicura, e poi gli pare subito un buon argomento, mi chiede quali libri, gliene mostro alcuni. Mentre li rigira tra le mani, leggendo velocemente la sinossi in ultima di copertina, avanzando facce incuriosite o dubbiose, gli propongo un grissino. Sgranocchiando mi dice: "Non leggiamo le stesse cose", "Cosa legge lei?", e mi spiega che predilige i gialli, qualche romanzo di buona fattura, qualche libro di storia.

Intanto ha riaperto il tavolo e ognuno di noi lo ha apparecchiato. Riapre il computer, riposiziona i fogli, le cartelline e tenta di riordinare il tutto. Si ferma: "Ma lei è francese?". Realizzo che abbiamo parlato in francese fino ad ora. E ci scappa una risata, di quelle in cui ti senti totalmente imbecille.
Io spargo i libri, la sveglia, i giornali e le briciole di grissini.
Qualche sedile più in là c'è una donna. Ci siamo sfiorate varie volte con lo sguardo, è bruna e giovane. Guarda fuori, anche se è buio. Ha il viso fermo. Gira la testa e le incontro gli occhi di vetro, che brillano per quella tendina d'acqua che fanno le lacrime trattenute e svelano la reticella di venuzze che affiorano nell'occhio, come le dita di un'edera, quando piangi. Ma non cade niente giù, e la fatica a trattenere le lacrime si trasforma nel fremito del mento, nella danza delle pieghe del collo; si volta subito verso il vetro, a testa alta, e mi viene un groppo al petto.

"L'uomo stava poggiato al finestrino
Senza faccia né movimento.
La sua anima era buttata sotto al sedile a fianco,
Se ne stava spappolata,
avvolta dentro una maglietta.
Ne uscivano lembi che non potevano sfuggire
all'osservatore attento.
È passato un ragazzo e l'ha raccolta.
L'ha presa delicatamente, come un cristallo di Baccarat,
Avendo cura di richiudere i lembi
della maglietta
Perché non si perdessero i pezzi.
..."


Il mio compagno di viaggio è professore di scienze politiche. Trotterella sui tasti, alza lo sguardo, "Vuole un altro grissino?", "No grazie", sorride. Si distrae, guarda lo schermo mentre le mani passeggiano sul tavolo per sincerarsi che ci sia tutto. "Tra poco avrò finito, dice. La batteria è scarica".
Mi guardo intorno e mi accorgo che nei vagoni moderni hanno dimenticato le prese di corrente. Ce n'è una nella toilette, dico .... e ride, figurandosi al lavoro, in treno, seduto sul WC col PC.

In piazza c'erano molte bandiere, un palco che si perdeva come un tavolino vestito in mezzo alla Piazza Rossa, i lampioni stavano lì lì per accendersi ma non lo facevano, confabulavano tra loro in attesa del momento migliore, che è quello in cui il cielo si fa un po' violetto. Sentivo il loro bzzzz bzzzz rassicurante, non sono neon, hanno anche loro qualche pruderie, magari hanno freddo, anche se non fa freddo, la piazza s'è tenuta un'aria da primo autunno per non far scappare nessuno sotto ai portici.
Al banco delle magliette c'è un tizio un po' curvo, barbuto ed esile, vicino a lui un bambino tondetto, con le gote turgide e gli occhioni tondi. Ci sono le magliette EZLN, c'è Ernesto, una con la pistoletta No War, hanno dei bei colori e non sono le solite. Ce n'è una con una poesia del subcomandante che mi ha guardato appena sono arrivata, è sbucata fuori dal mucchio sbattendo le ciglia, stringendo il colletto come la bocca e lanciando un bacio. Non potevo dirle di no. E poi altre due. Hanno avuto un successone, ormai i figli portano solo quelle. Ed abbiamo cercato altre poesie ed anche la faccia del subcomandante e la storia del Che: dalla maglietta all'enciclopedia, ci si può stare.
Il tizio mi racconta della scuola del bambino; il bambino è felice di stare in piazza, all'aria aperta e mi consiglia come distribuire le magliette, per età e personalità. Eugenio si chiama. Un altro dono della natura.
Sul palco c'è qualcuno che conosco. Da Baratti c'è il Secco, che è davvero secco. Per via della telecamera puntata contro non riesce a prendersi il caffè, non parla, non fa, sta lì come un baccalà, mi fa pena. Magari pochi minuti fa era sul palco, di fatto sta sempre inchiodato da qualche parte, a non vivere. Cambiamo bar.


La batteria del professore è finita e lui si stende finalmente sul sedile e mi racconta di suo figlio.
Sto sfogliando le poesie di Kavafis, in realtà guardo appena dietro; le gambe della donna stanno strette strette, le mani in mezzo alle cosce, a pregarle di star ferme, poi si gira richiamata dal mio sguardo. Ho bisogno di guardarle quegli occhi, il mento ora non sussulta più; muove appena le labbra per un quasi sorriso, dovrei offrirle un grissino. Invece guardo tra i sedili, magari c'è l'anima appallottolata.

"Si è laureato con 106, in fisica", e lo dice come la cosa a lui più estranea, domando cosa desideri fare e con la medesima estraneità mi predispone l'elenco dei viaggi all'estero, dei master, dei dubbi. Nella lista non ci sono sogni. Poi mi rassicura: "quando deve scendere l'accompagno, non si preoccupi ...". Ma io non mi preoccupo affatto, quasi quasi mi piace caricarmi tutta questa roba e avanzare stentando tra scale che scendono e che salgono. Gli ricordo che il treno ferma per tre minuti, e che se scende salta la sua cena a Parigi.
Vado a fumare una sigaretta, il professore richiude il tavolino, "stia tranquillo, non serve ...", ma lui si agita, fa posto anche se il posto c'è.
Apro la porta pneumatica. Una ragazza sta seduta sulla valigia e appena accendo la sigaretta spennella con gli occhi tutte le pareti: ovunque è scritto che non si può fumare. Apro la porta della toilette, una sensazione fantastica fumare di nascosto nel bagno del treno. Per onestà di cronaca, anche nella toilette c'è un cartello no smoking. Sono ancora più felice, e la sigaretta è ancora più buona.

La donna ha una sciarpa che le scende leggera sul pullover, di quelle che con poco vento si alzano e volano via. Poi inaspettatamente, mentre sto per sedermi reinnescando il tramestio del professore, si sporge verso di me, fa un cenno del mento verso le poesie e mi dice: "Posso?". Mi viene un brivido nell'incontrare il suo sguardo, sotto agli occhi la pelle ha una piccola piega, di quelle che fa il dolore, che rimpiccioliscono un po' lo sguardo, eppure lo fanno più bello. Sono contenta di porgerle il libro e vedo che comincia a scorrerlo alle pagine che ho segnato.

"E dire che con questi aggeggi, lo sa lei, posso anche collegarmi a internet da qui, vede, ho il cellulare e non so come accada ma accade che mi colleghi in rete. Ma non lo faccio mai, la batteria si scarica subito, e poi da quando ho tutto questo apparato tecnologico, la fretta m'è passata". Dice il professore. Lo ascolto molto distrattamente, in realtà aspetto il commento della donna sulle poesie. Ne sfoglio altre.
"L'accompagno, credo che sia arrivata", dice il professore.
Sì, già, sono arrivata. Raccolgo tutto, attenzione ai grissini, su il cappotto e le tre tracolle, la voce del macchinista annuncia che tra due minuti siamo in stazione, la donna si alza, mi porge il libro guardandomi dritto negli occhi, il professore si barcamena con le mie valigie, avanzo nel corridoio, c'è una maglietta spappolata sotto a un sedile, non posso fermarmi, scendo, il professore dice "non ci siamo neanche presentati", "non serviva ... grazie", mi incollo tutto, il libro di Kavafis cade dalla tasca, devo ricominciare, il treno riparte, la donna mi sta guardando dal finestrino con gli occhi di vetro, ha lasciato nel libro uno scontrino a questa pagina:

"I muri

Senza riguardo senza pietà senza pudore
mi drizzarono contro grossi muri.

Adesso sono qua che mi dispero.
Non penso a altro: una sorte tormentosa;

con tante cose da sbrigare fuori!
Mi alzavano muri, e non vi feci caso.

Mai un rumore una voce, però, di muratori.
Murato fuori dal mondo e non vi feci caso."

martedì 7 luglio 2015

Il viale dei tigli

Solimano
La scuola non era proprio vicina a casa, ci voleva più di mezz’ora per andarci a piedi. Al mattino non ci si guarda attorno, anche perché si ha il risveglio lento, da ragazzi, e si parte all’ultimo momento . Quindi camminavo con passo svelto, reggendo con la mano destra la cartellona -non si usavano zaini- spesso appesantita da dizionari, ed ero solo.
Diverso il ritorno. Avevo compagnia per metà strada, poi, salutati gli amici, potevo scegliere se continuare per la strada o passare attraverso il giardino pubblico, che a Parma si chiama Parco Ducale.
Di primavera sceglievo il giardino, merito del viale dei tigli e di quello degli ippocastani, percorrere l’uno o l’altro voleva dire scegliere fra il naso e gli occhi. La festa dei fiori degli ippocastani -aesculus hippocastanum- era clamorosa, altroché i meli di Proust: infiorescenze a cono alte fino a venti centimetri ricoprivano fitte fitte l’intera pianta da dove il tronco si diramava su fino in cima, molto alta di suo. Una grandiosa e abbondantissima nevicata fuori stagione, che si poteva affrontare senza paltò, smesso da poco.
La festa non durava molto, e quando finiva -una, due settimane al massimo- veniva il turno dei tigli -tilia europaea. Le “dimesse frondi” del Foscolo esistono, lo confermo: la chioma dei tigli tende ad aprirsi più che a salire, difatti sotto i tigli d’estate non è penombra, è proprio ombra fresca quasi senza fessure di sole. Quindi i piccoli fiori dei tigli non erano lontani da terra, il loro profumo si sentiva per tutto il viale, senza alti e bassi. Un profumo diffuso, tranquillizzante, soprattutto. Forse lo sentivo tanto perché era abbinato alla quiete -pochi passavano per il viale ed io ero solo. Avevo bisogno di silenzio e di starmene per conto mio, dopo la mattina in cui non avevo smesso di sentire voci, professori, bidelli o studenti che fossero.
I tigli erano compagni discreti, il profumo mi accompagnava per quei cinque minuti -non mi ci abituavo, continuavo a sentirlo- e mi piaceva anche vedere i polloni che spuntavano in basso, vicini alle radici, e che sarebbero cresciuti rapidamente, come fanno tutti i tigli di questo mondo.
Dopo aver mangiato, a casa, mi tornava la voglia che i compagni venissero a trovarmi, a giocare o a studiare poco importa, avvertivo il peso della solitudine pomeridiana. Ma sotto i tigli non era stato così.
Oggi c’è un tiglio, uno solo, di fronte a casa mia; mi piace, nella stagione giusta, chiamare fuori il mio vicino, così ci mettiamo a parlare sotto il tiglio, che è suo -ammesso che un tiglio possa essere di qualcuno. E’ una conversazione profumata, qualche ape si aggira, ci fa del buon miele con quei fiori.

mercoledì 16 marzo 2011

Ciao Primo




Non credere che io abbia dimenticato,
che oggi sia lontana da te.

Ricordo ogni parola, ogni istante,
e ognuno dei miei ricordi
rende più dolorosa la tua assenza.

Dove sei, amico mio?

Di quante cose vorrei parlarti...
sentire il tuo parere,
confrontare le idee.

Mi manca la tua lucida ironia, l'intelligenza,
l'inesauribile tesoro del tuo mondo interiore.

Mi mancano tante cose di te.

Un anno dopo, ancora...

Mi manchi tu.

venerdì 12 novembre 2010

Dove eravamo rimasti?


Cucciola Babù


Mi fa tenerezza questo blog che, per quanto fermo da mesi, continua ad avere lo stesso (notevole) numero di visite, se non addirittura di più.
Sono in parte lettori antichi e affezionati che ritornano sperando di trovare novità; ma anche lettori nuovi, capitati per caso con Google, che si sono fidelizzati e mi contattano con lo Scrivi al Nonblog sugli argomenti più vari.
Segno che abbiamo fatto un buon lavoro, serio ed appassionato, destinato a durare nel tempo.

I commenti e le mail non possono sfuggirmi, li trovo ogni volta che apro la posta. Eppure continuo a non entrare nel blog e (vergogna!) a non rispondere a nessuno.
Non che mi lascino indifferente, tutt'altro, ma è come se avessi paura di qualcosa, forse di lasciarmi coinvolgere di nuovo nel turbine vorticoso della vita da blogger.

Così non va, me ne rendo conto. Forse dovrei dichiarare ufficialmente chiuso il blog e non pensarci più.
Ma non è facile... non c'è mai niente di facile.
Ho dedicato tanto tempo, tanta cura ed amore a questo blog, che non riesco a lasciarlo andare come se non fosse mai esistito.

Intanto nella mia vita è entrata una cosa nuova, morbida e tenerissima, che si chiama Babù.
E' la cagnolina di Chiara, la nipotina grande (ha già undici anni e sembra ieri che le cambiavo ancora i pannolini) che trascorre da noi tutto il tempo che Chiara è impegnata a scuola.
Inutile dire che mi ha rubato il cuore ed anche gran parte del mio tempo.
Famiglia impegnativa la mia: un marito, una figlia, un genero, due nipotine ed ora anche Babù.
Un turbinio di affetti ed esigenze, persino più vorticoso di un blog, che mi rende felice ed appagata.

Volevo dirvi questo, che sto bene, sono serena, e soprattutto che non vi ho dimenticati. Non potrei...

Grazie sempre di tutto, a tutti.

venerdì 15 ottobre 2010

Per Solimano



L'ho scoperto per caso, leggendo il report del mio contatore.
Da mesi non aprivo questo blog, non riesco ad abituarmi alla tua assenza.
Quando finalmente mi sono decisa ad entrare ho visto che c'era un numero elevato di visite provenienti dal sito Golem L'Indispensabile.
Incuriosita sono andata a vedere ed ho trovato questo bel ricordo di Rossana Di Fazio che voglio riportare anche qui, in questa che è sempre stata la tua casa.


Fatto strano per lui, non rispondere. Dovevo immaginarlo che c’era qualcosa di grave. Pensavo che attraversasse un periodo buio. Ma quando mi son decisa a guardare un po’ in rete, nei tanti siti da lui aperti, animati, inventati, ecco, ho capito.
È morto Primo Casalini, Solimano, e non mi sembra vero sia successo a marzo - sono in ritardo, fuori tempo massimo, ma a me questi tempismi interessan poco.
Voglio ricordarlo e raccontare a tutti quanto questa persona, che per generazione avrebbe potuto avere qualche ritrosia a tuffarsi nelle nuove tecnologie, ma non per temperamento, cultura, intelligenza, abbia compreso, amato, creato, la rete e l’opportunità che essa fornisce a scambiare, comunicare, corrispondere - nel senso più alto del termine: scriversi, leggersi, comprendersi nelle parole dell’altro, obbligare - con grazia, con una scrittura fresca, elegante, brillante - l’altro ad ascoltarci.
Era venuto anche qui da noi a dire: ma cosa aspetta Golem a fare un blog? E a spiegarmi, ad ascoltarmi.
Mi dispiace moltissimo. Era un grande lettore, e sapeva guardare, come dimostrano i siti da lui promossi. E di Solimano gli piaceva il gusto, la magnificenza, e come lui amava la vita pur conoscendo bene le ombre che può riservare.
Mi sento di rendergli onore così, e credo di non sbagliare, mettendo insieme i link dei blog da lui voluti e costruiti, ciascuno un vivace luogo di scambio, in cui si sente il calore dell’amicizia, la vivacità dei pensieri, il gusto di star con gli altri. Spero gli farà piacere.

I bei momenti
Nonblog di habanera
Stanze all'aria
Abbacci e pop corn
Arengario

(24 settembre 2010)


Grazie Rossana, anche da parte sua.
Sono certa che il tuo ricordo gli farà particolarmente piacere.
Io so che ti stimava moltissimo e credo che lo sappia anche tu.
(Habanera)

L'articolo di Rossana di Fazio su Golem L'Indispensabile è qui.